Il Monaco

(tratto da Nove Storie – inedito)

Non vedevo Tiziana da diversi anni. Non so come fosse successo, ma non ci eravamo più incontrate. Forse non viaggiavamo sulla stessa frequenza e quindi, anche se fossimo state nello stesso luogo, non ci saremmo viste. Un invito a cena per un aggiornamento completo era il minimo che potevamo fare e, così, davanti a un piatto delizioso, ci eravamo raccontate un po’ di storie e di avvenimenti delle nostre vite. A un certo punto cominciammo a parlare di un film documentario che entrambe avevamo visto da poco, Attraversando il Bardo: sguardi sull’aldilà di Franco Battiato. Ci trovammo subito d’accordo sul fatto che, tra i personaggi intervistati nel documentario, uno in particolare, dal nostro punto di vista, aveva “bucato lo schermo”. Ci parve, insomma, una persona realmente ispirata. Si trattava di un monaco che aveva parlato della sua esperienza di accompagnamento delle persone in fase terminale con la Orazione del Cuore [antica pratica dei Padri del Monte Athos. NdA]. Il monaco, Guidalberto Bormolini, faceva parte di una corrente chiamata I Ricostruttori della Preghiera, presente in diverse città italiane. Decidemmo di cercare maggiori informazioni su internet e scoprimmo che I Ricostruttori avevano una sede a Firenze, in città e una specie di convento fuori città, nell’antica pieve di Santa Maria in Acone. Gli scrivemmo un’e-mail in cui lo ringraziavamo per il suo intervento nel film e gli chiedevamo come fare per incontrarlo. Ci presentammo come due Siloiste.

Non pensavamo che ci avrebbe risposto in breve tempo, dato che da ciò che potevamo vedere dal sito, era impegnato in molte attività e in vari luoghi, non solo in Toscana. Invece ci rispose subito, inviandoci l’intenso programma di attività previste a Santa Maria in Acone. Lui sarebbe stato presente solo in alcune occasioni, allora studiammo bene il programma e le nostre disponibilità e decidemmo di andare alla sua Conferenza su Confucio il 25 Aprile. Ovviamente informammo il monaco che saremmo andate a conoscerlo in quella data.

Come era già accaduto diversi anni prima, l’amicizia con Tiziana riprendeva vita attraverso un’azione interessante da fare insieme. La prima volta era stata la realizzazione del calco alla maniera dei Caldei, un calco fatto di ceramica per produrre copie in metallo. I calchi e le copie erano un tema di studio che apriva una specie di parentesi “a freddo” all’interno del percorso dell’Uffizio del Fuoco. L’Uffizio in questione era una ricostruzione, fatta in base all’esperienza diretta, delle tappe dell’evoluzione umana, a partire dalla conservazione del fuoco e fino alla fusione e lavorazione del vetro. Quella volta l’azione interessante ci aveva portato ad approfondire molto la nostra conoscenza e amicizia. Questa volta l’azione che coronava la coincidenza degli interessi era quella di incontrare una persona ispirata, secondo noi, una persona particolare che volevamo conoscere meglio e alla quale volevamo far sapere dell’esistenza del Siloismo.

La conferenza era fissata alle 21. Avevo guardato in Internet l’indirizzo, il luogo era un po’ sopra Pontassieve, comune limitrofo di Firenze, e sembrava che ci fossero delle strade di campagna per arrivare, ma sicuramente avremmo trovato delle indicazioni. Partimmo con il mio scooter dopo una cenetta veloce e con un buon anticipo. Superato il centro abitato del paese iniziarono le curve, scomparve l’illuminazione pubblica e la strada, dopo poco, divenne sterrata. Nessuna indicazione. Cominciammo ad avere dei dubbi. Il vecchio parabrezza del mio scooter era molto graffiato e questo non aiutava molto la visibilità. Destra o sinistra? Arrivate a un incrocio in mezzo al niente, decidemmo di andare dove ci portava il fiuto e ci dicemmo anche che, se dopo qualche centinaio di metri non avessimo trovato niente, saremmo tornate indietro e, forse, a casa. Invece trovammo il piccolo borgo e alcune persone che, sullo sterrato, stavano parlando tranquillamente. Chiedemmo se c’era Guidalberto e ci confermarono che era là, vicino al fuoco, con i ragazzi.

Lasciammo il motorino vicino al primo edificio e ci dirigemmo col casco in mano verso il centro di una specie di aia, nella quale spiccava un bel fuoco crepitante e dove c’erano delle panche messe in circolo e un gruppo di ragazzi che si muovevano e parlavano nella penombra. Da lontano riconobbi la voce del monaco: “Non ci posso credere, ce l’avete fatta!”. Ci accolse con affetto, come se fossimo di famiglia e ci offrì una tazza con una tisana calda. Anche noi non ci potevamo credere, a quel punto. Eravamo un po’ destabilizzate e ci rendemmo conto che non era stato affatto facile arrivare lì, niente aveva facilitato le cose. Guidalberto e gli altri monaci erano vestiti come dei boscaioli, l’ambiente era festoso e familiare, c’era un gruppo di scout in visita – ci spiegò – e poco dopo sarebbe iniziata la conferenza, ma prima voleva farci visitare il luogo, anche se era ormai buio. Ci raccontò che, con il gruppo dei Ricostruttori, avevano chiesto alla Curia la possibilità di ristrutturare, a proprie spese, l’antico borghetto con la Pieve abbandonata e avevano avuto il permesso di farlo. Si sentivano molto liberi di parlare della comunità Cattolica senza tabù, dato che, oltre a quel permesso, non avevano ricevuto alcun finanziamento e le opere si erano realizzate esclusivamente con l’aiuto fisico ed economico delle persone che si erano avvicinate, nel tempo, ai Ricostruttori. Ci fece vedere la residenza dei monaci e delle monache, il laboratorio di erboristeria, la falegnameria, l’atelier per dipingere e la grande cucina. Infine la cripta, dove ci saremmo riuniti per la conferenza, e la chiesetta, luogo dedicato alla Pratica della Orazione del cuore e ai momenti del rito. Tutto era estremamente rustico ma funzionale e con un’estetica sobria e accogliente. La chiesetta mi colpì in modo particolare. C’erano torce alle pareti e tappeti in terra, in fondo alla sala si stagliava un’immagine a colori acidi del volto del Cristo della Sacra Sindone, di grandi dimensioni. Volli fare una prova, mi tolsi le scarpe, entrai e mi sedetti di fronte all’immagine. Mi collocai più profondamente che potevo dentro di me e cominciai a chiedere, respirando ritmicamente, chiedevo ascolto e protezione alla mia Guida Interna e, a un certo punto, quando mi sentii connessa e pronta, aprii lievemente le palpebre e l’immagine del volto del Cristo mi balzò di fronte, viva, in tre dimensioni. Mi emozionai ed ebbi una bella connessione con la Forza. Trovai il tutto molto intelligente e sensato, costruito coerentemente su una credenza autentica. Conoscevo più o meno la storia della Orazione del Cuore e sapevo che le Scuole mistiche si erano formate sempre all’ombra delle grandi religioni, ma non avevo idea che ci fosse gente, così vicino a me, che la stava praticando ancora in modo così serio.

Concluso il giro, ci riunimmo con i monaci e gli altri amici dei Ricostruttori, una dozzina di persone in tutto, scalzi e seduti su tappeti a terra in cerchio, nella cripta illuminata dalle torce. Il monaco aveva in mano una serie di foglietti con degli appunti brevi, che gli ricordavano cosa dire e in questo modo condivise con noi ciò che aveva studiato a proposito di Confucio durante la sua formazione. L’interesse comune era chiaro, anche dalle domande e dai commenti degli ascoltatori: comprendere la pratica mistica delle altre culture e fare relazioni con la propria, per approfondire il tema dell’esperienza mistica, senza filtri, senza pregiudizi, lavorando con le fonti dell’informazione e con l’esperienza di chi praticava da maggior tempo. Durò circa un’ora e mezzo e poi tornammo fuori, nell’aia, dove gli scout giocavano allegramente. Io e Tiziana avevamo portato alcuni libri da regalare a Guidalberto, così approfittammo di quel momento per parlare un po’ con lui. Ci disse che la comunità che stavamo vedendo si era formata con delle persone che, per la maggior parte, erano atee o che avevano abbandonato la religione perché ne erano rimaste deluse. Ci raccontò che lui stesso aveva smesso di frequentare la Chiesa a quattordici anni e, se non avesse incontrato uno dei primi Ricostruttori, che lo aveva invitato a praticare l’Orazione del Cuore, forse la sua storia sarebbe stata un’altra. Quindi, lui praticava da quando aveva quattordici anni. Dedicava a quella forma di preghiera diverse ore al giorno, in diverse sessioni e, nella sede cittadina, il gruppo insegnava alle persone che lo desideravano, delle forme di avvicinamento alla pratica. Se, poi, qualcuno decideva di lavorare in modo più intenso, allora veniva seguito in modo personalizzato. “Certo” – dissi io – “perché poi cominciano a succedere cose…” e il nostro sguardo si incrociò. Ebbi la certezza, in quel preciso momento, che la Profondità era per quella persona una esperienza quotidiana. Una sensazione di fusione, in quello sguardo breve, annullò le individualità e lasciò respirare lo spirito. Allora mi aprii e gli raccontai delle mie esperienze con il Cristianesimo nell’infanzia e della delusione profonda che era sorta in me a causa dell’incoerenza e dell’ipocrisia di cui ero stata testimone. Con Tiziana gli parlammo anche dei Parchi di Studio e Riflessione e della Scuola di Silo, di cui conosceva l’esistenza anche se non aveva mai letto i suoi libri.

Poi, dopo i saluti affettuosi, ci dirigemmo al nostro mezzo di trasporto e cominciammo a pensare alla lunga strada buia in mezzo alla campagna, che ci aspettava. Sentivo una specie di ebbrezza lucida, qualcosa stava succedendo in me ed ero invasa dalla certezza di una comprensione che si espandeva e che mi metteva in contatto con una profonda serenità. Una serenità infinita e la comprensione crescente di Tutto, ma senza essere in grado di focalizzare alcun pensiero o concetto preciso. Solo la luna piena ci regalava ombre e luci, per guidarci in quel sentiero pietroso, che gradualmente si allargava e tornava a essere una carreggiata asfaltata. “Se infiliamo male una curva e finiamo in un burrone stasera” – ci dicemmo ridendo, mentre avanzavamo alla cieca nel buio sporgendo la testa oltre il parabrezza – “saremo comunque spiritualmente ben accompagnate!”.

Solo il giorno dopo riuscii a capire qualcosa di quello che mi era successo. Scrissi allora una e-mail a Guidalberto, lo ringraziai per la gradevole serata e gli promisi di restare in contatto. Gli dissi chiaramente che non avevo intenzione di riavvicinarmi al Cristianesimo, perché avevo già da tempo trovato la mia via, ma che il fatto di conoscere lui e la sua storia mi aveva messe di fronte a un’operazione che, forse ora, avrei potuto intraprendere. L’esistenza dei Ricostruttori e di persone come lui, mi permettevano di riconciliarmi con il Cristianesimo, che aveva lasciato in me un’orma oscura, un’ombra che si era ulteriormente ingrandita con lo studio e l’osservazione diretta delle atrocità commesse, nella storia vicina e lontana, da quella organizzazione e in nome di quel credo. La mia riconciliazione non avrebbe previsto alcun perdono per quelle azioni, ma senza dubbio avrebbe potuto nutrirsi del riconoscimento dello spirito in chi, come I Ricostruttori, avevano professato un Cristianesimo diverso, essenziale e alla ricerca di una libertà interiore, piuttosto che del potere psicologico e materiale sul mondo e sull’umanità.

Le foto dei morti

(da Nove Storie – inedito)

“E quello chi è, mamma?”. La vecchia scatola di cartone aveva di nuovo vomitato sul tavolo un cumulo di foto che si erano sparse dappertutto, mostrando volti e luoghi di altri tempi.

E la mamma ricordava le vecchie storie di famiglia, le storie più incredibili e articolate, la realtà superava qualsiasi immaginazione. Io, ovviamente, le ho già dimenticate tutte, ma mi è rimasto il ricordo piacevole di quelle mattinate passate a fare domande sui volti di tutta quella gente in bianco e nero, con le vesti dalla foggia antica o quanto meno retró. La mamma, instancabile, ripeteva le storie con una narrativa agile e sobria, c’erano anche storie truci di suicidi, di tradimenti, di figli abbandonati. Però c’erano pure racconti dell’inizio del XX secolo, di una Italia agricola da cima a fondo con gli orti, le galline in casa, vite segnate dalla fatica fisica, a cominciare dai chilometri da fare a piedi la mattina per andare a scuola o a lavoro. E poi, improvvisamente, le foto delle feste con i vestitini a pois e le fasce degli anni cinquanta nei capelli. Le estati al mare con i primi bikini e nel sottofondo si poteva udire, lontano, l’eco di uno swing o di un twist veloce.

“E quello chi è?”. Un signore un po’ stempiato, con gli occhiali e la faccia seria, piuttosto arrotondata, sui cinquanta anni. Varie copie della stessa foto, più grande e senza il bordino bianco come molte delle altre. In mezzo alle decine di piccole e a volte ingiallite immagini provenienti da varie epoche, quella foto si appropriava dello spazio e sbucava fuori ogni tanto in modo prepotente, come a dire: ci sono anche io! La mamma glissava e diceva: “Uno zio” o qualcosa di simile. Tanto aveva molte storie da raccontare su tutti gli altri, che a noi passava subito la voglia di indagare. Solo molti anni più tardi io e mia sorella abbiamo saputo che si trattava del nostro nonno di sangue, cioè di suo padre. Un medico friulano che, dopo aver avuto una relazione extraconiugale con la nonna, aveva deciso di non riconoscere sua figlia, nata da quell’amore clandestino. La mamma, che aveva scoperto la sua storia quando era ormai un’adolescente, aveva ricontattato la famiglia friulana. Aveva scritto una lettera e le avevano risposto cortesemente: le avevano spiegato che il padre era ormai deceduto da tempo e le avevano inviato qualche copia di una sua foto. Storie da telenovela, storie di morti, quelle persone ritratte nelle foto erano quasi tutti morte.

Tornare a ricordare le loro storie era una vera festa per noi. Si estraeva a caso una foto dal mucchio ed erano di nuovo vivi, in quel momento ritornavano tutti in vita, con i loro errori, le loro magnifiche opere, le loro gioie e le frustrazioni. E poi le avventure che avevano affrontato nel loro futuro, che era il nostro passato. La morte era forse solo un sentimento di lontananza che aleggiava fra una foto e l’altra, niente di realmente tragico o toccante in confronto al pathos delle vicissitudini, a volte rocambolesche e drammatiche, di alcuni personaggi. Almeno io l’ho vissuto così e mi duole di non aver scritto allora quelle storie, che stanno prendendo il volo con gli ultimi sopravvissuti della generazione che ancora può ricordarle, in modo più o meno fedele.

Le generazioni si succedono le une alle altre, regalano grandi scoperte e lasciano a volte dei conflitti pendenti, degli errori non compresi, dei dolori inespressi o dei danni da riparare. Il processo umano slitta verso l’evoluzione o frena in alcuni casi, ma cavalca sempre le generazioni che si avvicendano nel grande palcoscenico della Storia, ognuna con la sua caratteristica, ognuna con la sua funzione. Nonostante gli scarsi mezzi di comunicazione disponibili fino a poche decadi fa, non è così grosso lo sfalsamento nello stile di vita e nelle capacità di dare risposte concrete, proprie delle generazioni che abitano attualmente il pianeta. Ma con la rivoluzione tecnologica dell’ultimo secolo, senza dubbio si è accelerata enormemente la possibilità dello scambio di informazioni, delle scoperte, degli avanzamenti comuni. E stiamo per assistere alla crescita e allo sviluppo delle prime generazioni planetarie, quelle che, contemporaneamente, sono capaci di usare gli stessi mezzi e di comunicare a livello globale. Quelle che, nonostante parlino idiomi diversi e facciano parte di diverse culture, dominano la stessa lingua digitale. Non è possibile immaginare ciò che potrà succedere da oggi a 20, 50, 100 anni. Così si moltiplicano le previsioni da fantascienza o le minacce di catastrofe o entrambe le cose allo stesso tempo.

Ormai le foto stampate sono una rarità. Ognuno guarda nel suo personale schermo le immagini dei suoi ricordi, custodite gelosamente e individualmente, come facevano i replicanti di Blade Runner. Ma raramente si condividono di persona con gli altri. Certo, lo si fa con molte persone attraverso i social network e ci si espone, talvolta, anche a commenti sgradevoli. Non c’è momento storico importante come questo per aggiornare la memoria e imparare a ricordare e a immaginare. Ricordare, integrare, elaborare il passato della nostra specie con le sue avventure e i suoi drammi. Riconciliarsi con gli errori e ripararli, scoprire la propria funzione come individui, come generazione e come specie e, poi, imparare a immaginare un futuro possibile e buono per tutti, davvero. Provare a pensare a un futuro di evoluzione che metta d’accordo l’avanzamento materiale con l’orizzonte spirituale.

Tra i giovani di queste nuove generazioni digitali mi sembra di sentire il gusto del nuovo che supera il vecchio, non più attraverso la lotta per la supremazia, ma quale frutto della comprensione profonda del ruolo che ci è toccato nell’universo. E questo mi porta a riflettere su di noi, quelli che giovani non sono più, ma nemmeno vecchi. Mi viene da pensare al nostro ruolo, per lo meno, di ponte generazionale.

Saremo in grado di essere davvero i modelli dei nuovi giovani digitali planetari? Quando vorranno sapere tutte le storie e, amabilmente, ci chiederanno: “E quello chi è?”.

Vittima o superstite

A tutti succedono cose sgradevoli prima o poi. Quando ci sentiamo trattati male, accusati ingiustamente, quando ci sembra di stare in una specie di Armagheddon nel quale perdono stabilità tutti i nostri punti fissi, di solito attribuiamo a qualcun altro o a qualcosa di esterno la responsabilità di quegli avvenimenti. Abbiamo bisogno di cercare una spiegazione: “Perché a me?”, “Perché proprio io?”. E, normalmente, quando ci diamo delle risposte a partire da quel clima doloroso, prendiamo dei clamorosi abbagli.

A volte, effettivamente abbiamo subito dei soprusi, a volte invece, senza rendercene conto del tutto, ci siamo infilati in situazioni impossibili da risolvere che ci hanno portato al fallimento o al disastro.

Ma poi, in ciascuno dei due casi, la cosa veramente importante è come comprendiamo l’accaduto, come lo integriamo nei nostri vissuti, cosa impariamo, come ne usciamo.

Quando ci sentiamo delle vittime e ci portiamo dietro quella sensazione senza metterla mai in discussione, in realtà stiamo alimentando il nostro risentimento per quel qualcuno o quel qualcosa che, nel fondo, reputiamo sia il colpevole dei nostri mali, anche se fosse un essere intangibile come “il Destino”. Non lo diciamo, anzi, siamo pure capaci di perdonare pubblicamente chi, secondo noi, ci ha danneggiato, ma in realtà non è vero niente. E’ solo un gioco di ruolo che, mentre ci promette autoaffermazione e giustizia, ci fa perdere la dignità. La condotta della vittima ci porta a ripetere noiosamente certi comportamenti che, prima o poi, ci ributtano in una circostanza dolorosa. La vittima non chiede chiaramente un aiuto, nel fondo lo pretende degli altri, non parla mai chiaro perché è una forma di manipolazione operata toccando delicati interruttori delle viscere altrui. E siccome funziona, cioè, spesso la vittima poi ottiene ciò che vuole, e sembra che ciò le dia soddisfazione, questo comportamento si fissa come “positivo”. Però non basta mai, e allora, va di catastrofe in catastrofe per ottenere risarcimenti infiniti che, però, non sono capaci di soddisfare quella voragine di sofferenza che ormai si è creata.

Quando ci sentiamo dei superstiti, vuol dire che sentiamo che quello che ci è accaduto è una storia chiusa, quali che siano le responsabilità e l’apparente giustizia o ingiustizia che si sia fatta. Se ci sentiamo superstiti è perché abbiamo capito qualcosa, imparato qualcosa anche dalla circostanza più disgraziata o senza senso che ci è toccato vivere. La nostra dignità è intatta, siamo capaci di chiedere e di dare apertamente, con libertà e senza vergogna e, se qualcuno ci compiange o si addolora per noi, siamo capaci di fargli vedere gli aspetti positivi anche di quella esperienza. Il superstite è più consapevole, anche se soffre per ciò che gli accade, anche se effettivamente sta subendo una ingiustizia o se soltanto si è messo nei guai con le sue mani. Cerca la comprensione lucida, che a volte significa anche scoprire qualcosa di sé che non si voleva vedere e che la circostanza triste ha messo a nudo. A volte significa assumere l’inevitabilità di fatti che da fuori e da lontano parevano evitabili. E pure questo comportamento ha le sue conseguenze, perché, effettivamente, il superstite sa che è sopravvissuto a un evento che non si ripeterà mai nello stesso modo, che la vita lo porterà forse a nuove sfide, forse a conflitti e frustrazioni, ma sente una grande forza che lo accompagna. Quella forza si chiama riconciliazione.

Non importa quale sia la situazione che abbiamo vissuto, non importa quale sia la “verità”, che spesso è sfumata e sfuggente. Ciò che vale davvero è come affrontiamo e superiamo gli avvenimenti difficili o dolorosi della vita. Il nostro sguardo è ciò che più importa. Verso dove e verso cosa lo dirigiamo e come valutiamo, alla fine, la nostra esperienza.