Ella ha tumori in metastasi ovunque, ha poco da vivere. John comincia a perdere pezzi di memoria e non è solo incontinente con i suoi ricordi. Due ottantenni con una lunghissima e intensa storia d’amore alle spalle, due figli ormai adulti e tante esperienze vissute assieme, decidono di concludere il loro passaggio su questo pianeta con un viaggio in camper senza ritorno. L’ultimo film di Paolo Virzì, Ella & John – The Leisure Seeker, è stato criticato aspramente da una parte della critica americana, forse perché loro ammettono solo le macchiette stereotipate dei caratteri degli altri popoli prodotte da Hollywood, e non pensano che anche gli altri popoli guardino alle forme nordamericane con sguardo critico, satirico o anche superficiale. Ma l’equilibrio dell’umorismo di Virzì, sempre sul filo tra l’agro e il dolce, unito alla sua capacità di mettere teneramente a nudo le meraviglie e i limiti dell’esistenza umana, fa di questo film delicato, uno stimolo speciale che ci fa pensare tutto il tempo alla morte e poi ci lascia con un lieve sorriso.
Paolo Virzì, poco più grande di me, probabilmente è figlio di quella generazione dai lunghi matrimoni del dopoguerra. Lo stesso marito o la stessa moglie per tutta la vita, un lavoro per tutta la vita, una casa di proprietà per tutta la vita: ecco il modello del boom economico dei “favolosi anni ’50”. Ho sempre pensato che fossero realmente favolosi quegli anni, proprio nel senso di “favole”, dato che le generazioni precedenti e quelle successive non hanno seguito affatto quel modello. Se non hanno voluto o non hanno potuto è una discussione storica e sociologica che non sono in grado di affrontare, a me interessa il fatto che, tra i miei coetanei, i casi di genitori con questo tipo di storia sono davvero tanti. E, adesso che stanno morendo, assistiamo a epiloghi a volte durissimi, che il film di Virzì esorcizza con un finale che, per noi che identifichiamo i nostri genitori con i suoi protagonisti, è quasi un finale da favola.
Quella generazione, quelli che hanno fatto le scuole durante la guerra, non erano soldati, no, erano la società civile, erano quelli che fuggivano di notte per i bombardamenti, quelli che hanno visto la crudezza della guerra con lo sguardo dell’infanzia o della prima adolescenza, quelli se ne stanno andando. Mio padre scappava nel grande giardino della villa, in cui i tedeschi avevano fatto traslocare la sua e altre famiglie di sfollati, si nascondeva dietro i tronchi delle piante secolari e giocava a schivare le schegge delle bombe, al sentirne il sibilo nell’aria. Mia madre avrebbe voluto restare a dormire, ma quando suonava la sirena di notte, si doveva alzare di corsa e con la nonna e le sorelle scappava nei campi, a sdraiarsi nelle buche in terra con tutti quegli altri che, come la nonna, non sopportavano la clausura dei rifugi sotterranei. E quelle zuppe di zucca gialla di cui poi non si poteva più nemmeno sentire l’odore, e la felicità delle tavolette di cioccolato, o delle prime sigarette di tabacco, che portavano gli inglesi o gli americani.
Quella generazione che ha ballato il twist e il tango nelle balere, che si è fidanzata e sposata con i suoi coetanei, che avevano il medesimo paesaggio di formazione e che credevano in una Europa di pace e di unità fra i popoli. Quelli che hanno costruito una famiglia e sono rimasti insieme tutta la vita, nonostante le divergenze o i dissapori, quelli se ne stanno andando e, quando uno dei due se ne va prima dell’altro, dopo quaranta, cinquanta o sessanta anni di matrimonio, non ne resta uno, ne resta solo la metà. L’altra metà, quella che nel passare degli anni, si era mescolata fino a perdere i confini dell’uno nell’altro, se ne va con il primo che muore. E come fa, quello che resta, a elaborare il lutto dell’amato? É come se dovesse elaborare anche un po’ il lutto di se stesso, prima di morire però. Impossibile.
Qualcuno dei sopravvissuti decide, inconsapevolmente, di accellerare una sua malattia e se ne va poco dopo. Qualcuno si deprime così tanto che si ammala e muore in modo imprevisto. Quelli che restano, spesso, cominciano a perdere la testa. I casi di Alzheimer sono curiosamente in aumento in quella generazione. Certo, prima la chiamavano semplicemente vecchiaia, le famiglie erano fatte in un altro modo e forse c’era meno solitudine. Oggi invece si osservano i fenomeni con altri strumenti e si analizzano con cervelli differenti. E ci sono anche rimedi diversi per rendere migliore la vita di chi resta, con il corpo e poco più.
Quelli che restano, senza dubbio, devono avere una ragione forte per restare e sono molto coraggiosi, anche se spesso non è così evidente la loro decisione. Semplicemente sembra che gli succeda di restare vivi, ci sono, sono ancora qui e devono costruirsi una nuova storia, con un vuoto incolmabile al loro fianco, anche se, a un certo punto, ne dimenticano persino il nome.
E così, l’epilogo della vita di Ella e di John è quasi una novella dolce da raccontare ai nipoti, una novella che veste di un amore profondo e romantico la lunga favola della loro esistenza.