La robotica ha avuto negli ultimi decenni degli sviluppi impressionanti. Con i robot oggi si fa di tutto, compreso conversare. Oltre a quelli che montano e dipingono le automobili, quelli che costruiscono strutture sott’acqua, quelli che volano, esistono pure dei robot che fanno compagnia a chi non può permettersi di sposarsi, per esempio. I robot si stanno sviluppando ma gli umani sono ridotti parecchio male.
Così mi vengono in mente i replicanti di Ridley Scott in Blade Runner e il meraviglioso bimbo robot di Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg (su progetto di Stanley Kubrik). Film emozionanti in cui i robot, oltre ad aver sostituito l’essere umano in moltissime funzioni tecniche, arrivavano a entrare nell’intimo della esistenza degli umani. Da poco ho riletto certi racconti di Isaac Asimov e mi sono resa conto di quanto è avanzata la ricerca e anche di quanto c’è ancora da fare. Mi ha sempre colpito l’enunciazione delle tre leggi della robotica di quello scrittore visionario:
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Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.
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Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
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Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.
La cosa che mi colpisce è che per poter applicare le tre leggi il robot deve avere la consapevolezza di essere un robot e la differenza che intercorre fra lui e un umano.
E qui casca l’asino.
Anche Ridley Scott, Stanley Kubrik e Steven Spielberg si devono essere posti, a un certo punto, la questione perchè nei loro meravigliosi film sfiorano il tema con vera delicatezza e poesia.
Il punto è: come fa il robot a rendersi conto che è un robot e non un umano quando il suo corpo assomiglia sempre più a quello umano e la sua capacità intellettiva e comunicativa eguagliano, se non superano, quelle dei suoi creatori? Forse stiamo di fronte a un enorme specchio psicologico in cui chiediamo ai robot di fare qualcosa che non abbiamo il coraggio di fare. Non sarà che dovremmo chiederci noi, seriamente, che cosa davvero ci caratterizza come esseri umani?
Durante la mia infanzia e adolescenza ho spesso avuto la sensazione di essere una extraterrestre, forse solo perché il mio sguardo si fissava di più sulle differenze, da quelle più esterne a quelle più esistenziali, che davvero esistono all’interno dell’immensa varietà di manifestazioni di questa giovane specie in evoluzione. Senza bisogno di essere un organismo alieno o un robot, ho cercato poi risposte e ne ho trovate tante, e alcune mi hanno permesso di sentire quella cosa, quella sensazione di unione profonda che mi permette di non percepire gli altri umani come nemici o estranei a prescindere. Le strade ci sono, sono già state percorse dagli albori della nostra storia e attualmente sono alla portata di chiunque.
Trovo che l’avvento della robotica nella vita quotidiana della gente comune potrebbe essere un’ottima opportunità per approfondire questa domanda e cercare, all’interno di ciascuno di noi, quella profondità che ci permette il genio e l’incoerenza, come anche l’amore incondizionato e la crudeltà più aberrante. Cercare quella profondità e ripartire da lì, scoprire quel segnale interiore che ci accomuna, superando le differenze culturali, e tradurlo in una azione che davvero sia utile e buona per tutti. Io sono già pronta ad accettare la convivenza con la nuova specie dalla vita artificiale e mi auguro di cuore che, grazie anche a questo nuovo schock evolutivo, la follia umana di quest’epoca possa lasciare il posto a un’era di maggiore consapevolezza e lungimiranza.