(da Nove Storie – inedito)
Le dolci colline verdi della Svizzera riempivano la visuale mentre con Georg, il mio compagno, ci dirigevamo in auto al supermercato di Weinfelden. All’improvviso un’emozione forte mi stupì e un ricordo nitido mi attraversò la mente. Decisi di seguirlo.
Si trattava di un ricordo di almeno quindici anni prima. Facevo ancora l’educatrice per una Cooperativa Sociale e lavoravo in una casa famiglia per minori a Firenze. All’epoca le strutture di quel tipo si erano riempite di ragazzi che arrivavano con i barconi dall’Europa dell’Est, attraverso il Mare Adriatico. Imbarcazioni improbabili con a bordo adulti e ragazzini provenienti dal Kossovo, dall’Albania, dalla Macedonia, dal Montenegro. La quantità di armi e di gente folle e armata in quei paesi, dopo la sanguinosa guerra civile che aveva definitivamente dissolto la ex Jugoslavia, aveva convinto molte famiglie a mandare via i loro figli. Tentavano di salvarli e li imbarcavano su navi sgangherate e sovraffollate in cerca di fortuna e di un posto dove poter andare a ballare la sera senza rischiare sempre di essere ammazzati. Poi c’erano i ragazzi che giungevano dal Nord Africa con molta fortuna, dopo la traversata del Mediterraneo e chissà quale altra terribile esperienza impossibile da narrare. Dopo una prima accoglienza quelli al di sotto dei diciotto anni, protetti dai Diritti Universali del Fanciullo, venivano distribuiti sul territorio nazionale nelle case famiglia per minorenni. In quelle stesse strutture alloggiavano temporaneamente anche i minori residenti in Italia, allontanati dalle famiglie in difficoltà o da situazioni in cui avevano subito dei maltrattamenti o delle violenze. Comunque sia, erano tutti giovani che avevano vissuto situazioni traumatiche, erano tutte storie di poveri figli, come li definivamo a volte fra colleghi. In quel momento avevamo in casa quattordici ragazzotti tra i quindici e i diciotto anni, alcuni erano alla fine del loro percorso dopo aver frequentato la scuola italiana per diversi anni, altri erano appena arrivati e possedevano poche parole comprensibili nel proprio repertorio. Uno di loro, Mitat, era particolarmente turbolento ed estremamente vivace. L’avevo conosciuto qualche mese prima in un’altra casa famiglia, dalla quale era stato spostato da poco tempo perché non ce la faceva proprio a rispettare tutte le regole di quella struttura. Mi era rimasto simpatico per la sua incontenibile energia e lo avevo trovato bene in questa nuova situazione: una casa in piena campagna, vari ragazzi albanesi come lui, un sistema di norme più flessibile, data l’ubicazione dell’edificio. Poteva andare a correre tutti i giorni sulle strade sterrate dei dintorni, così scaricava meglio l’energia in eccesso e si era fatto più responsabile.
Quella sera stavo entrando in turno per fare la notte e avevo preparato alcuni giochi che volevo realizzare nel dopocena col gruppo, così magari si imparava anche qualche parola nuova. Al mio arrivo però, avevo trovato i miei colleghi stanchi e con una tremenda delusione dipinta sul volto. Qualcuno aveva preso i soldi dalla nostra cassa e, nonostante gli educatori avessero ripetutamente chiesto ai ragazzi di dire come erano andate le cose, l’omertà aveva prevalso. Gli educatori in turno avevano quindi deciso di sporgere una regolare denuncia ai carabinieri la mattina seguente. Questa notizia mi aveva fatto sentire malissimo. “Guarda, se vuoi provarci anche tu, sono tutti di là in salotto davanti alla TV”, mi aveva detto la mia collega Nicoletta prima di andarsene.
Già da anni svolgevo delle attività con gli stranieri come volontaria e sapevo bene in quale ambiente, più o meno larvatamente xenofobo, si sarebbero dovuti inserire questi giovani migranti anche nella migliore delle ipotesi. Non riuscivo proprio a immaginare come avrebbero potuto cavarsela con una denuncia di furto come biglietto da visita. Tutte le opportunità decenti sarebbero scomparse in un batter d’occhio. I ragazzini stranieri con precedenti o segnalazioni penali erano la carne da macello per le mafie; mi scoppiava il cuore, non potevo permetterlo. Dopo essermi concentrata un momento sul messaggio che volevo trasmettere mi diressi in salotto. Passai in mezzo a loro in silenzio: alcuni erano seduti sul divano, altri sulle sedie e guardavano un film d’azione di pessima qualità con espressioni poco interessate. Mi misi davanti allo schermo, dopo averlo spento, rivolta verso di loro e li guardai diritti negli occhi senza parlare per un momento. Anche se sapevo che più della metà di loro non avrebbe capito niente di quello che dicevo, lasciai andare il fiume di parole che avevo in testa e tutte le mie emozioni. “Voi forse non avete capito dove siete. I vostri genitori si sono indebitati per farvi sfuggire alle mafie dei vostri paesi o alla mancanza di futuro e voi, con questa cazzata, vi giocate tutto. Tutto! Voi non avete capito che qui, in questo paese democratico, fuori da questa casa, c’è una grande quantità di razzisti e un sacco di mafia che non aspetta altro che di usarvi. Uscite da qui e siete senza alcuna protezione e – non fatemelo nemmeno pensare – con una denuncia sulle spalle non troverete uno straccio di lavoro legale, nemmeno a piangere. Questo non è un gioco, sono le vostre vite, dopo tutto quello che avete passato per arrivare qui!”
Stavo per piangere, mi fermai un momento. Avevo di fronte a me degli occhi spalancati su quelle faccine giovani con un enorme punto interrogativo, chi più chi meno, ma con l’espressione di aderire pienamente alle emozioni intense che stavo trasmettendo. “Entro mezzanotte voglio i soldi in ufficio e voglio sapere chi è stato e perché. Nico, per favore, puoi tradurre quello che ho detto agli altri?” chiusi, e me ne andai. Mentre tornavo in ufficio sentii che Nico parlava in albanese e poi in dialetto Rom o in kosovaro, per spiegare agli altri che gli chiedevano, eccitati, che cosa avessi detto. Si era creato scompiglio, qualcosa si era mosso. Nico, un bel giovane ormai quasi maggiorenne, era in Italia da diversi anni. Da una casa famiglia a un’altra, era riuscito a completare le scuole medie, imparare l’italiano perfettamente ed evitare di finire a rubare autoradio.
Tornai in ufficio in uno stato di lieve alterazione, un po’ elettrica, dentro di me una lucina si era accesa e raccontai sommariamente al collega del turno di notte come era andata. “Speriamo”, mi disse. Circa un’ora dopo Mitat venne in ufficio consegnandoci i soldi e confessando il furto. Capimmo, tra le righe, che non l’aveva fatto da solo, ma lui volle prendersi tutta la responsabilità, tanto, a dire suo, era già incasinato. Il giorno seguente iniziarono le pratiche per la sua dimissione e fu spedito in una comunità diretta da un sacerdote in Emilia Romagna (nella quale tra l’altro, si trovò molto bene e ci scrisse qualche tempo dopo). Non fu fatta alcuna denuncia.
Perché questo ricordo con quell’emozione così viva e forte? Un’immagine imprevista, un aneddoto che era sbucato all’improvviso dalla mia biografia, senza un’associazione immediata con il paesaggio o con la mia situazione di quel momento. In realtà qualche giorno prima avevo redatto, per l’ennesima volta, il mio curriculum vitae e avevo ripercorso la mia carriera di educatrice, anche se l’attenzione era posta più che altro sulle date di inizio e di fine degli incarichi lavorativi. Certo in quegli anni avevo vissuto moltissime situazioni di quel tipo e anche più forti, più al limite. Qual era dunque il messaggio? Cosa mi voleva dire quell’intrusione della memoria?
Questi fenomeni, molto comuni, a volte sono prodotti dal movimento nella memoria – che lavora permanentemente – in cui i ricordi si riaccomodano. E allora capita che queste immagini volanti si sovrappongano alla percezione. Però talvolta succede che queste immagini, improvvise e senza contesto, siano la traduzione di un contatto con dei contenuti mentali più profondi, che sono presenti anch’essi in modo permanente e che mandano i loro segnali, con maggiore o minore intensità. Credo che stavolta si trattasse di un mix fra le due opzioni. Da una parte la mia coscienza era irritata dai termini e dagli atti di stampo xenofobo che riempivano la cronaca e la propaganda in Italia; dall’altra parte c’era l’impulso profondo all’apertura, alla compassione vera, all’amore incondizionato che premevano dall’interiorità e che cercavano una loro espressione nel mondo. In un istante questi due impulsi si sono incontrati, mentre tornavano in primo piano le date del curriculum vitae e allora si è agganciato quel ricordo che, più tardi, è balzato fuori con tutta l’emozione che lo accompagnava. Forse come un semplice esempio di soluzione di un conflitto, una soluzione basata sul senso di umanità piuttosto che su improbabili ricette tecniche o politiche.
Chissà.