Quando finisce il mondo di Avatar

Immagine di Ronny Overhate da Pixabay

Ricordate quel film di animazione in cui il fratello in sedia a rotelle di uno scienziato morto improvvisamente, prendeva il suo posto nel travasare la sua ‘intenzionalità’ dentro il corpo di un Avatar? Quei corpi giganteschi e superdotati erano stati prodotti dagli umani che cercavano di interagire con la popolazione di un pianeta sconosciuto, con l’intenzione di colonizzare il pianeta, ovviamente, per estrarre non ricordo più cosa. A parte la trama tipicamente made in Hollywood, alla fine della pellicola l’umano trovava il modo di travasare definitivamente la sua essenza nell’Avatar e rimanere nell’altro mondo in modo completo.

Questa storia mi è tornata in mente riflettendo sul momento di cambiamento tecnologico che stiamo vivendo, soprattutto dall’inizio della pandemia. Non è che queste tecnologie non esistessero prima, ma erano senza dubbio utilizzate ancora solo marginalmente dalla popolazione, non erano cosi necessarie come durante il primo lockdown. Poi, con le successive chiusure sono diventate parte integrante della vita di milioni di persone. Sto parlando in particolare delle videochiamate e delle videoconferenze via internet. La giornata tipo di molti di noi si sviluppa ormai da una videochat all’altra. Sono stati fatti video ironici e comici, per far vedere come dietro alla videocamera, appena ci si alza in piedi o si spegne il computer, la vita reale sia diversa. Ma quello che noto con orrore è come molte persone si stiano adattando passivamente a questa forma di comunicazione, o meglio, di contatto audiovisivo. Sono così abituate che arrivano a vedere la possibilità di sostituire con una chat il contatto in presenza, col corpo, anche nelle occasioni in cui, invece, del corpo e di tutti i suoi sensi e antenne, ce ne sarebbe davvero bisogno.

Si lo so, sono vecchia, sono nata nel 1968 e ho visto il carosello nelle prime TV in bianco e nero. Roba da dinosauri. E sicuramente mi estinguerò come loro. Figuratevi che non sono mai riuscita ad appassionarmi ai social e difatti non li uso. Ma il film Avatar mi ha fatto ricordare che anche molti sviluppatori di tecnologia – attuale modello di ‘vincenti’-, spesso sono persone con serie difficoltà affettive e relazionali. Come il protagonista, in carrozzina, poteva finalmente correre nell’agile e atletico corpo creato per lui, anche per molti sviluppatori, ingegneri, informatici, ma anche semplicemente per le persone spaventate o sole il vero sogno potrebbe essere quello di trasformarsi completamente nel proprio Avatar. Il nostro surrogato digitale si muove così agilmente nei social, si esprime senza difficoltà, si inoltra nelle discussioni, pubblica foto sempre venute bene o magari di altri o di paesaggi pieni di poesia, oppure crea meme brillanti o esilaranti e si arrabbia e gioisce con intensità senza il timore della sensazione di ritorno che un corpo vicino a lui potrebbe trasmettergli.

Non ditemi che gufo: e se ci fosse un blackout planetario?